Menu Chiudi

1979-1989: quando un accordo sul clima venne, quasi, raggiunto. (I)

1979-1989: quando un accordo sul clima venne, quasi, raggiunto.

Sono settimane di sacrifici per tutti e di grandi sofferenze per un numero esageratamente alto di famiglie.

Nel momento in cui la pandemia da coronavirus assume la sua piena dimensione planetaria e si chiarisce il fatto che siamo globalmente integrati, ma sulla base di una fragilità mai prima avvertita, emergono risposte frammentate, contraddittorie, limitate, locali.

Se cogliamo la mancata integrazione delle regole a livello nazionale, questa constatazione vale ancor più in ambito internazionale: a problemi globali si risponde con iniziative locali che spesso si originano da una miope visione di interessi impresentabili.

Non per umanità, ma per necessità, si dovrà affermare il principio della cooperazione tra gli stati e aspetti significativi della nostra vita dovranno essere assoggettati a regole condivise, nell’interesse dell’umanità.

La rapidità e la violenza con la quale l’epidemia da coronavirus si è diffusa ha eclissato dall’orizzonte dei nostri pensieri l’altra questione globale: ci riferiamo ai cambiamenti climatici, alla devastazione degli ambienti naturali, al riscaldamento globale.

Eppure di questo problema si parla da decenni: già nel 1957 Roger Revelle e Hans Suess, in un importante saggio, scrissero: «Attualmente gli esseri umani stanno conducendo un esperimento geofisico su larga scala, che non sarebbe stato possibile in passato né potrebbe essere ripetuto in futuro.»; e nel 1966 (https://www.legambientefaenza.it/storie-di-storia-del-clima/2020/01/1966-quando-le-aziende-carbonifere-gia-sapevano/)  i produttori di carbone iniziarono a indagare le conseguenze dell’eccessivo ricorso a fonti energetiche fossili traendone motivi di preoccupazione, ma anche abili scuse per continuare come sempre.

Peraltro, i due temi si intrecciano, essendo le emergenze sanitarie una conseguenza della questione ambientale. Più efficaci di ogni nostra considerazione sono le parole di David Quammen, l’utore di Spillover,  in un’intervista rilasciata a “il manifesto” il 25 marzo scorso: « Noi dominiamo questo pianeta come nessun’altra specie ha mai fatto. Ma ci sono conseguenze e alcune prendono la forma di una pandemia da coronavirus. Non è una cosa che ci è capitata. È il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Tutti ne siamo responsabili … Potrebbe essere che inizieremo a ridurre il nostro impatto in termini di clima, di tutti i combustibili fossili che bruciamo, in termini di distruzione della diversità biologica, di invasione dei diversi ecosistemi. Forse cominceremo ad avere un passo più attento e più leggero su questo pianeta…».

Forse.

Negli anni Ottanta del secolo scorso, gli scienziati, gli attivisti, i politici e la grande industria trovarono il modo di incontrarsi e di mettere in primo piano la tutela del pianeta. Quasi riuscirono a raggiungere un accordo. Ma fallirono.

Questa è la tesi sostenuta da Nathaniel Rich nel libro “Perdere la Terra” [Nota 1]: una minuziosa ricostruzione delle fasi che hanno preceduto il mancato esito che cerchiamo di raccontare in modo sintetico nel seguito. Ovviamente, consigliamo la lettura del libro, libro che negli Stati Uniti ha sollevato vivaci polemiche [Nota 2].

Non sappiamo quanto durerà l’emergenza da coronavirus, ma sappiamo che il rispetto delle restrizioni alla libera mobilità ha comportato, quale effetto involontario, una riduzione dei carichi di inquinamento.

E sempre involontariamente, l’uomo ha sviluppato una capacità di modificare l’ambiente che va oltre la possibilità di prevederne le conseguenze.

Quanto la conoscenza del problema può originare una risposta consapevole?

È una questione di tempo. Negli anni Sessanta lo smog aveva ucciso di colpo un sacco di persone nelle strade delle più affollate città americane e furono approvate le leggi sull’inquinamento dell’aria.

Ma un aumento della temperatura di 2 gradi è la “ … ricetta per un disastro a lungo termine …”, come ha efficacemente riassunto James Hansen. Quanto il rischio di una futura lontana catastrofe può innescare il cambiamento? Ci preoccupiamo per i nostri figli, ma quanto veramente? Fino a che punto siamo consapevoli del fatto che ogni nostra comodità debba essere un diritto anche per ogni altro terrestre e che, dunque, il suo effetto vada ingigantito di sette miliardi di volte?

Insomma, che valore siamo disposti ad attribuire al futuro?

Se fossimo economisti gli attribuiremmo un valore scarsissimo, vicino allo zero. Gli investimenti a lungo termine per miliardi di euro, di dollari, di sterline, devono basarsi sul fondamento che le condizioni di oggi si ripresentino anche domani. Ma il passato non è più guida per il futuro. Dunque il valore di un clima stabile nel futuro dovrebbe avere in sé un valore inestimabile, ma le esigenze nell’immediato annullano le crisi ambientali a lungo termine.

La nuova pandemia, però, sta muovendosi con una rapidità inaspettata. Ed i costi economici sono e saranno ingenti. Solo alcuni mesi fa tutto sembrava procedere normalmente. Nessuno, al di fuori del ristretto ambito dei ricercatori, è stato in grado di prevedere quanto sarebbe accaduto. Ora, sembra che si riscoprano le competenze, si ascoltino gli scienziati. Ma solo ora. E gli altri scienziati, quelli che si occupano di clima, che ci avvertono, ed in modo sempre più allarmato, dei rischi che corriamo, chi li ha mai ascoltati?

Bene, inizia qui il nostro racconto. Siamo convinti che possa aiutarci a comprendere la regioni di un fallimento che si trascina da quarant’anni. Non è una premessa ideale per la lettura. Ma le false speranze sono peggio dell’assenza di speranza; eliminano qualsiasi possibilità di conoscere e elaborare soluzioni.

Una misteriosa combriccola

I Jason sono stati un’oscura accademia di scienziati che si riunivano segretamente ogni estate ed erano accomunati da due elementi: l’elevato livello scientifico dei suoi componenti e la convinzione che le scelte degli Stati Uniti, dunque dell’intero globo, dovessero essere guidate dalle loro superiori competenze. Dopo la pubblicazione dei Pentagon Papers si scoprì che le loro idee non erano sempre specchiate e qualcuno di loro subì attacchi dagli attivisti contro la guerra in Vietnam; avevano anche progettato di distribuire, nel sentiero Ho Chi Minh, sensori per inviare segnali di movimenti ai bombardieri americani.

Si dedicarono anche a progetti di pace.

Uno di loro, Gordon MaDonald, che nel 1968 aveva pubblicato un saggio nel quale paventava la possibilità di ricorrere alle modificazioni climatiche quali armi di distruzione di massa in sostituzione degli ordigni nucleari, si era convinto che il costante aumento delle emissioni industriali di anidride carbonica avrebbe potuto alterare gli equilibri climatici. E il progetto del presidente Carter, nella seconda metà degli anni Settanta, di produrre combustibili sintetici ad alto contenuto di carbonio estraendoli da sabbie e argille bituminose, sollevava ulteriori preoccupazioni.

Nella primavera del 1977 e nell’estate del 1978 i Jason si riunirono al National Center for Atmospheric Research di Boulder in Colorado con un obiettivo che, a distanza di quarant’anni, oltre a mantenersi interessante in sé, assume un valore storico: determinare le conseguenze di un raddoppiamento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera rispetto al periodo preindustriale.

Certo, si trattava di una scelta arbitraria ma altamente evocativa: il raggiungimento di quel punto indicava che l’umanità era riuscita ad immettere nell’atmosfera, e in meno di un secolo e mezzo, la stessa quantità di carbonio che la Terra aveva accumulato nella sua lunghissima storia.

Le previsioni erano, allora, sconvolgenti:

  • entro il 2035, al massimo entro il 2050, si sarebbe raddoppiata la concentrazione di CO2 nell’atmosfera;
1850: 290
1958: 314
1979: 334
2035/2050: 580?

 

  • entro la metà del ventunesimo secolo si sarebbe raggiunto un aumento delle temperature medie globali compreso tra 2° e 3 °C;
  • amplificazione del riscaldamento nelle regioni polari;
  • la fusione completa della calotta glaciale polare avrebbe innalzato il livello del mare in tutto il mondo di 5m;
  • conseguenze politiche e sociali sicuramente incerte, ma che avrebbero potuto essere altamente distruttive.

Il rapporto, The Long-Term Impact of Atmospheric Carbon Dioxide on Climate, venne inviato a scienziati, aziende, amministratori pubblici, responsabili del governo.

Un intraprendente ambientalista ed un veterano della CO2

Rafe Pomerance si era laureato in storia alla Cornell University ed occupava, nella primavera del 1979, il ruolo di vicedirettore legislativo dei Friends of the Earth. Lo si poteva considerare uno degli ambientalisti meglio introdotti nel ramo legislativo e esecutivo del governo.

La lettura di un rapporto tecnico sul carbone, realizzato da un ente governativo, lo aveva posto di fronte, per la prima volta, ad una dura scoperta: l’uso eccessivo e prolungato di combustibili fossili avrebbe potuto innescare nell’atmosfera terrestre cambiamenti significativi e dannosi. Perché nessuno ne parlava?

Incontrò Gordon  MacDonald, che aveva iniziato ad occuparsi del problema della CO2 dal 1961 mentre lavorava come consulente per John F. Kennedy, riandarono agli studiosi del problema e presero una decisione: parlarne con qualcuno in Campidoglio.

Organizzarono riunioni informali finché arrivarono a Frank Press, forse il più importante scienziato consigliere del presidente Carter. Press organizzò un incontro invitando i più importanti funzionari dell’Ufficio presidenziale per la scienza e la tecnologia: nonostante avessero ricevuto una copia del rapporto dei Jason, non sembravano molto informati. MacDonald tenne il suo discorso assieme a Roger Revelle che, a differenza degli uditori, conosceva bene il tema: nel 1957, assieme a Suess, aveva scritto un importante saggio sui cambiamenti nella composizione dell’atmosfera e nell’anno successivo aveva collaborato al progetto per la misurazione continua della CO2 in uno sperduto avamposto nella grande isola di Hawaii.

MacDonald concluse l’intervento chiarendo che l’esperimento condotto dall’umanità stava diventando sempre più audace.

Press non perse tempo e in un paio di settimane coinvolse Jule Charney, uno dei fondatori della moderna meteorologia, perché convocasse i migliori studiosi a cui affidare il compito di verificare se le preoccupazioni esposte da MacDonald fossero giustificate.

Gli scienziati

Jule Charney convocò il gruppo di scienziati, a cui si aggiunsero esponenti di vari dipartimenti di Stato, il 23 luglio 1979 a Woods Hole, nella estremità meridionale di Cape Cod.

In pochi giorni era chiesto loro di quantificare l’incertezza contenuta nella previsione di un riscaldamento tra e 2 e i 3°C previsto nel rapporto dei Jason.

Charney coinvolse, via telefono, un ricercatore, Jim Hansen, uno dei pochi ad essersi occupato di elaborare modelli climatici utilizzando i supercomputer dell’epoca; una sorta di mondi paralleli che simulavano le condizioni reali accelerandone i tempi e proiettandoci nel futuro. Si era dedicato in precedenza a Venere, la cui superficie va oltre i 400°C a causa dell’atmosfera composta in prevalenza di anidride carbonica, ed in quel periodo cercava di capirne di più su come le attività umane potessero influenzare il nostro clima.

Il modello di Hansen stimò, ad un raddoppio della CO2, un incremento della temperatura di 4°.

Il doppio rispetto alle previsioni fatte da una altro elaboratore di modelli climatici, Syukuro Manabe dell’università di Princeton. Una differenza abissale: con più 2°C le barriere coralline subiscono danni, con più 4°C spariscono.

A quel punto Charney coinvolse Akio Arakawa, esperto di nuvole e anche lui coinvolto nella elaborazione di modelli computerizzati del clima. La discrepanza nelle due stime, secondo Arakawa, dipendeva da una differente valutazione della capacità riflettente delle superfici ghiacciate: in un clima più caldo una minore estensione dei ghiacciai avrebbe ridotto la diffusione della luce e contribuito ad accelerare il risaldamento. Se Manabe aveva sottovalutato l’effetto, Hansen l’aveva valutato in modo eccessivo. Il valore più probabile era nel mezzo: nel 2035, al raddoppio della CO2, le temperature sarebbero aumentate tra 1,5 e 4,5°C, con un valore probabile attorno a più 3°C.

Più in generale, le parole contenute nella prefazione sono chiarissime: “Per più di un secolo, siamo stati consapevoli che i cambiamenti nella composizione dell’atmosfera avrebbero potuto influire sulla sua capacità di intrappolare l’energia del sole a nostro vantaggio. Ora abbiamo prove incontrovertibili che l’atmosfera sta anzi cambiando e che noi stessi contribuiamo a quel cambiamento.Le concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica sono in costante aumento e questi cambiamenti sono collegati con l’uso da parte dell’uomo di combustibili fossili e lo sfruttamento del suolo. Poiché l’anidride carbonica svolge un ruolo significativo nel bilancio termico dell’atmosfera, è ragionevole supporre che i continui aumenti potrebbero influenzare clima”.

Un autorevole Rapporto

Alcuni mesi dopo l’incontro a Woods Hole venne pubblicato il rapporto di Jule Charney: Carbon Dioxide an Climate. A Scientific Assessment.

3, il numero dell’incremento di temperatura con il raddoppio dell’anidride carbonica, riassumeva quanto fatto in precedenza e sarebbe stato confermato dai lavori successivi.

Era già capitato tre milioni di anni fa, nel Pliocene, ma ora sarebbe stato solo l’inizio di un disastro.

Si ammetteva un probabile errore di 1,5°C in più o in meno, dovuto alla non ancora sufficiente conoscenza del meccanismo di trasferimento del maggiore calore all’interno degli oceani che, comunque, avrebbe al massimo ritardato il riscaldamento, non certo evitato, e alla difficile quantificazione dei meccanismi di feedback negativo (aumento di nuvole riflettenti a quote basse e medie), ritenuti, peraltro, non in grado di compensare il più efficiente meccanismo di feedback positivo indotto da una maggiore umidità atmosferica.

Se i dati potevano confortare gli scienziati, si sarebbero dimostrati un incubo per i politici.

Nei modelli di simulazione utilizzati dal gruppo di ricerca non erano inserite le ipotesi riguardanti il funzionamento dell’economia mondiale e il ruolo della biosfera nel ciclo del carbonio, cioè tutto ciò che si sarebbe originato dalle scelte umane. Fino a che punto ci si sarebbe spinti nell’estrazione e nell’utilizzo dei combustibili fossili? Quanti alberi sarebbero stati abbattuti, quante foreste cancellate dalla geografia globale?

Non si poteva più attendere, e le scelte umane, quelle scelte umane, si dovevano indirizzare ad una politica globale di riduzione dell’utilizzo di combustibili fossili.

Ma era possibile invertire la tendenza? E chi aveva il potere per farlo? E c’era ancora abbastanza tempo per farlo?

Entrava in gioco la politica

La politica

Nel 1978 un ricercatore della Exxon diffuse un rapporto interno sostenendo che nel giro di 5, massimo 10 anni, si sarebbero preso decisioni che avrebbero modificato in modo drastico le strategie energetiche. Ma Henry Show, allora dirigente del laboratorio di ricerca della Exxon, era convinto che i tempi della politica sarebbe stati molto più rapidi.

Il 3 aprile 1980, il senatore democratico Paul Tsongas fu il primo, in una udienza al Congresso, a trattare il tema dell’incremento del diossido di carbonio nell’atmosfera; intervenne Gordon MacDonald sostenendo che gli Stati Uniti avrebbero dovuto farsi carico, presso le Nazioni Unite, di coordinare le politiche energetiche di tutti i paesi.

Nel giugno dello stesso anno il presidente Carter incaricava l’Associazione nazionale delle scienze di condurre uno studio sulle conseguenze economiche e sociali del cambiamento climatico. Nel 1983 sarà pubblicato il rapporto Changing Climate.

La Commissione nazionale sulla qualità dell’aria organizzò con urgenza una riunione verso la fine di ottobre coinvolgendo una ventina di esperti, tra i quali Shaw e Rafe Pomerance.

Riunione al Palazzo Rosa

Una sorta di castello posticcio con una splendida vista sul Golfo del Messico. In Florida.

I convocati discussero nell’intera settimana che precedeva Halloween ma non arrivarono ad alcuna proposta politica. Seppure condividessero le stesse conoscenze scientifiche, non trovarono nemmeno il modo di stendere un solo paragrafo.

Bastava che dichiarassero che, a parte qualche piccolo disaccordo su alcuni dettagli, a loro importava del cambiamento climatico e che si sentivano in dovere di intervenire per provare ad impedirlo. Che il carbone andava bandito, certo non da un giorno all’altro, ma con una serie di graduali interventi, ad esempio l’introduzione di una tassa sul carbonio e incentivi alle rinnovabili, che segnalassero al mondo quanto determinati fossero gli Stati Uniti. Dopo di che avrebbero organizzato un summit mondiale sui cambiamenti climatici …

Ma, “… molto spesso, quando noi scienziati siamo cauti nelle nostre dichiarazioni, tutti gli altri non afferrano il punto perché non capiscono le nostre riserve”, disse Annemarie Crocetti, studiosa di salute pubblica. In quell’occasione prevalsero le riserve.

Pomerance non aspettò la conclusione dei lavori, quanto sentito l’aveva convinto che una strategia costruita sul consenso non funzionava.

Guerra lampo

Quattro giorni dopo la chiusura dell’incontro in Florida, siamo nel Novembre del 1980, Reagan fu eletto presidente.

Bastarono poche decisioni per chiarire le sue intenzioni contro l’ambiente:

  • un piano per chiudere il dipartimento dell’Energia;
  • aumentare l’estrazione di carbone dal suolo statunitense e liberalizzare l’estrazione da miniere di superficie;
  • nomina di James Watt, che si batteva per estendere ai suoli pubblici le estrazioni e le trivellazioni, a capo del dipartimento degli interni;
  • rinuncia allo smantellamento dell’EPA, ma nomina quale suo amministratore di Anne Gorsuch, ostile ad ogni regolamentazione ambientale, che ridusse subito di un quarto il personale dell’ente;
  • il Consiglio per la qualità dell’ambiente presentò un rapporto allarmato sull’uso dei combustibili fossili e Reagan accarezzò l’idea di eliminarlo.

Un’azione così estrema da allarmare addirittura alcuni membri del partito repubblicano.

L’inizio della fine, avrà pensato in quel breve frangente Rafe Pomerance.

La stampa

Sotto traccia, però, il rapporto Charney continuava ad aggirarsi negli ambienti accademici e le sue conclusioni furono confermate da importanti studi (Aspen Institute, International Institute for Applied System Analysis di Vienna, American Association for the Advancement of Science).

E, con regolarità, i giornali nazionali ricordavano agli americani che il problema diossido di carbonio non si era affatto eclissato.

Soprattutto, il 22 agosto del 1981, sulla prima pagina del New York Times apparve la notizia che “Science” avrebbe pubblicato una saggio a firma di alcuni scienziati della Nasa che si concludeva con una netto consiglio: nei decenni a venire i combustibili fossili si sarebbero usati solo in situazioni di assoluta necessità e sarebbe dovute via via crescere la quota di energia da fonti rinnovabili.

Il principale autore era James Hansen. Che iniziava ad avere problemi: il nuovo direttore del suo programma sul diossido di carbonio, un certo Fred Koomanoff, sfrenato tagliatore di budget, l’aveva convocato. Non prometteva bene

Un paio di udienze al Congresso

Pochi se ne accorsero, ma il 31 Luglio del 1981 si tenne la seconda udienza dedicata ai cambiamenti climatici. Voluta da due democratici, James Scheuer e da un giovane del Tennessee, Albert Gore jr.; intervennero Roger Revelle e un economista Lester Lave. “Sarà un giorno triste quello in cui decideremo di non avere il tempo e la serietà necessari per affrontare tali questioni”, così concluse il suo intervento Lave.

Quella sera i notiziari preferirono dedicarsi all’eccedenza nazionale di burro e allo sciopero del baseball.

Tuttavia, l’articolo dei New York Times, successivo di poche settimane all’udienza, segnalava l’esistenza di un pubblico nazionale interessato alla tematica del diossido di carbonio e James Hansen, con la sua serietà e la sua schiettezza, poteva essere la persona giusta per ripensare ad una nuova udienza. Magari contrapponendolo a Fred Koomanoff. Bene, avrebbero testimoniati entrambi. Rafe Pomerance, anche in questa occasione, svolgerà un ruolo importante.

L’udienza si tenne il 25 marzo 1982 e fu introdotta da Melvin Calvin (chi non si ricorda del ciclo di Calvin): inutile aspettare prove ulteriori del riscaldamento, quando le avvisaglie saranno così avanzate da emergere dal rumore di fondo sarà troppo tardi, sostenne.

Hansen raccontò che la temperatura superficiale del pianeta era già aumentata di 0,4°C, definì l’innalzamento del livello dei mari e lo scioglimento dei ghiacci ai poli. E si soffermò su un fenomeno venuto alla luce da poco: la proliferazione nell’atmosfera di alcuni gas serra più oscuri, in particolare i clorofluorocarburi (le sostanze allora usate nei frigoriferi e nelle bombolette spray).

Insomma, poteva essere in atto un cambiamento climatico superiore a quanto ci si aspettava.

Gore pose l’unica domanda politica di rilievo: quando si sarebbe raggiunto il punto di non ritorno, oltre il quale l’incremento della temperatura sarebbe andato fuori controllo? Sarebbe stato affrontato dalla sua generazione o da quella dei suoi figli?

Se i geologi ragionano su tempi smisurati i politici non vanno oltre quelli elettorali; pochi, ma combacianti con i tempi del carbonio: nell’arco di dieci o vent’anni si sarebbero visti cambiamenti climatici fuori dalla variabilità naturale, fu la risposta di Hansen. Incrementi fino a 2 gradi, ma raggiunti in un secolo, sarebbero rientrati nei limiti dell’adattabilità umana, ma questi limiti stavano per essere sforati.

Se paragonata con la precedente, quell’udienza fu un successo: la CBS vi dedico in serata, durante CBS Evening News, tre minuti, apparvero Calvin e Gore. Quest’ultimo, in seguito, si vantò, a ragione, di aver impedito la dissoluzione del programma sul diossido di carbonio del Dipartimento dell’Energia.

Ad Hansen, invece, non vennero confermati i finanziamenti.

Cambiamenti, non solo climatici?

Però sembrava che qualcosa di nuovo stesse per accadere.

Ad un importante convegno tenutosi nell’ottobre del 1982 presso l’osservatorio Lamont-Doherty della Columbia University (vi collaborò anche lo stesso Hansen) il discorso di apertura fu tenuto da Edward David, allora presidente della divisione di ricerca della Exxon. Addirittura sostenne che il problema del diossido di carbonio richiedeva una nuova strategia in grado di programmare le attività non nei prossimi vent’anni, bensì nei prossimi cinquant’anni, che una politica necessaria avrebbe dovuto guidare ad un radicale passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili e la compagnia avrebbe dato un contributo alla svolta.

L’amministrazione Reagan continuava la sua battaglia, ma la sua intransigente ottusità, ora che anche Exxon sembrava muoversi in altra direzione, iniziava a costare in termini di fiducia: alla fine del 1982 Anne Gorsuch e James Watt si dimisero.

Grazie alla stampa nazionale il problema del diossido di carbonio usciva dalla sua dimensione scientifica per assumere una valenza politica, iniziava a turbare le coscienze.

C‘era di che esserne moderatamente ottimisti.

[Parte prima]

 

[Nota 1. Nathaniel Rich, Perdere la Terra, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2019.]

[Nota 2. L’intero numero del “New York Time Magazine” del 1 Agosto 2018 era occupato da un unico articolo, scritto da Nathaniel Rich, il cui testo verrà in seguito pubblicato nel libro Losing Earth.

Nel testo Rich sosteneva che in quel decennio le conoscenze sul cambiamento climatico era avanzate e coincidenti con ciò che sappiamo oggi, che la separazione politica sulla questione non si era ancora affermata (molti esponenti del partito repubblicano non condividevano le scelte dell’amministrazione Reagan sulle questioni ambientali), le industrie petrolifere stavano approfondendo il tema e non avevano ancora attivato le politiche di disinformazione che perseguiranno nei decenni seguenti e, infine, c’era una convergenza nell’agenda politica globale per un accordo internazionale vincolate sull’emissione di gas climalteranti. Ma, nonostante “le condizioni per il successo non avrebbero potuto essere più favorevoli”, non se ne fece nulla.

L’articolo ha ricevuto una quantità insolita di critiche e sui social media non pochi si sono dedicati al linciaggio virtuale.

Secondo alcuni climatologi e studiosi delle politiche climatiche, Rich ha di fatto esonerato le industrie dei combustibili fossili e il partito repubblicano da ogni responsabilità, e ha operato una selezione arbitraria dei fatti, omettendone di decisivi.

Naomi Klein, su The Intercept, si sofferma sulla frase “non avrebbero potuto essere più favorevoli”, riferita agli anni Ottanta del secolo scorso. All’opposto di quanto sostenuto da Rich, Naomi Klein scrive che è difficile immaginare un periodo più inopportuno  di quello: perché in quegli anni la dottrina neoliberista raggiunge la massima diffusione e condivisione, si afferma l’idea che il libero mercato debba investire ogni nostra azione e si scredita il valore dell’azione collettiva.

Altresì, in altri commenti si segnala che Rich ha proprio identificato nella convergenza di due opposte tendenze storiche – l’affermarsi di una visione globale che avrebbe dovuto affrontare il cambiamento climatico e l’emergere di una ideologia molto più potente interessata a liberare il capitale da tutti i vincoli – l’elemento che fece fallire lo slancio da lui colto.]

1979-1989: quando un accordo sul clima venne, quasi, raggiunto. (I) ultima modifica: 2020-03-28T15:49:41+00:00 da Giorgio Della Valle

Rispondi